20 Dic Firenze: una città (con camera) con vista sull’immaginario
Claudio Cippitelli, sociologo, Cooperativa Sociale Parsec
L’articolo che segue è l’adattamento dell’intervento di Claudio Cippitelli al convegno “Differenze in comune”, il testo ne rispetta lo stile discorsivo.
Per preparami a questo convegno, ho chiesto a un po’ di amici che fanno lavoro sociale di identificare Firenze, ma anche Roma, con un film. La prima cosa che viene in mente ai più è il film di James Ivory del 1985, Camera con vista, vincitore di tre premi Oscar. Per quanto riguarda Roma non va molto diversamente: coloro che frequentano le sale cinematografiche scelgono “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, i meno cinefili ricordano “Vacanze romane” di William Wyler.
Cosa ci dicono queste scelte? Ci dicono che le città che abitiamo, nel nostro immaginario continuano ad essere le quinte dove si svolge il Gran Tour ottocentesco della borghesia europea o dove, come nel caso romano, la borghesia festeggia e celebra i suoi riti e i suoi fasti. In verità, per capire che cos’è una città, la città dove noi lavoriamo e dove il lavoro sociale nasce, si sviluppa, si radica (e fra un po’ muore, se continua così), dovremmo avere in mente altri approcci cinematografici e altre visioni della città.
Per Firenze ve ne propongo un paio. Il primo è un film del 1961 di Mauro Bolognini, “La viaccia”. Si tratta di un film in costume (fantastico! Tra il pubblico qualcuno l’ha visto!) con Jean-Paul Belmondo, Claudia Cardinale e Pietro Germi, che racconta di una Firenze all’inizio del secolo scorso e ci fa comprendere benissimo che cos’era una città rispetto alla campagna che la circondava, dal punto di vista di opportunità lavorativa, di cultura, di libertà individuale. Noi oggi, abitatori dello sprawl urbano, questo privilegio di vedere una città conclusa, con confini delineati e certi, non abbiamo più modo di rintracciarlo.
In questo film, il protagonista entra a Firenze, come in ogni città fin da sempre, mosso da quello che muove le persone, il desiderio, il sentimento che spinge a costruire relazioni e, a volte, rovina le relazioni costruite. Relazioni e desiderio, due parole che sono, devono essere, al centro dei pensieri di noi che facciamo lavoro sociale. Senza il rispetto dei desideri delle persone e dei gruppi che incontriamo, il nostro lavoro non ha assolutamente senso, ma vedremo come il ruolo assegnato ai nostri servizi sembra essere sempre di più un ruolo di mera riparazione, come se ci dovessimo occupare di individui difettosi o incompiuti.
Ma torniamo al titolo della relazione: è possibile concepire le città in generale, e Firenze nello specifico, senza considerarle all’interno di un network di città? Oggi, è lecito pensare Firenze senza l’alta velocità? È possibile pensare questa città senza la rapidissima connessione ferroviaria che la collega con le due città più vicine, Bologna e Roma? È corretto dire che le persone che arrivano a Santa Maria Novella, intendano questa stazione come la vera porta d’accesso alla città dei Medici? E quanto dista, in questa nuova psicogeografia tracciata dall’alta velocità, il campanile di Giotto dalla Torre degli Asinelli e dal Colonnato del Bernini? Roma, Firenze, Bologna, sono ormai tappe di un unico continuum, sempre più accomunate dagli stessi negozi monomarca e dalla stessa offerta di merci figlie della globalizzazione. Allora, se le cose dette hanno una qualche verità, cosa spinge la gente a prenotare un B&B a Borgo San Frediano, cosa motiva un fiorentino a dirsi fiorentino?
Per gli amministratori, il confine di Firenze è un confine di mandato: laddove non c’è più mandato amministrativo, lì finisce Firenze. Ma per le persone che abitano Firenze, quale è il confine? Dov’è il limen che racchiude la memoria, sino a dove la loro biografia di fiorentini nasce, si avventura, si sviluppa e continua a riprodursi? Nella realtà, la psicogeografia di un cittadino di Firenze varca d’un balzo i confini amministrativi, percorre la Fi.Pi.Li sino al mare, o si spinge sino all’appennino, urbanizzando desideri di spiaggia e di sentieri.
La città una volta, come dice Benevolo, poneva il senso del limite, anche il limite identitario; vivere e lavorare in città era diverso dal risiedere e lavorare in campagna. Oggi, come continua Benevolo, stiamo andando verso un futuro in cui avremo sempre più difficoltà a riportare su una mappa le trasformazioni urbane, la nostra capacità di orientarci nello spazio entra in crisi, le città contemporanee finiscono per essere indistinguibili dal territorio circostante.
Una pellicola del 1977, aiuta a comprendere tali trasformazioni. Un film di Giuseppe Bertolucci, forse da alcuni sottovalutato, ma che per me resta un capolavoro: “Berlinguer ti voglio bene”. La scena che ci interessa si svolge sul terrazzo di un edificio di una Prato in costruzione, dove alcuni edili, membri di una classe operaia in trasformazione, esprimono aspettative e desideri assai diversi: quando Benigni e i suoi compagni parlano di Berlinguer, la periferia che assiste ai loro discorsi è una periferia qualunque di una qualunque nuova città italiana, una teoria di abitazioni che non è distinguibile da altre periferie.
La città, le diverse città, sono inserite in quello che Boeri chiama “un sistema lineare a densità variabile di aree urbane”, e se le città contemporanee finiscono per essere indistinguibili dal territorio circostante, gli amministratori dovrebbero porsi un problema: nel suo intervento Stefano Bertoletti affermava giustamente che i nostri progetti, i nostri servizi, non possono rimbalzare sui confini imposti dalle amministrazioni. Il progetto della Regione Lazio Nautilus, simile al toscano Extreme, segue i ragazzi di Roma anche in eventi che si realizzano in città di altre regioni, perché il progetto si rivolge ed è definito dalla relazione con le persone che abitano nel Lazio, non dai confini amministrativi dell’Ente finanziatore.
Le Città divengono sconfinate e senza margini, dove si succedono diverse centralità e ambientazioni, divenute nel linguaggio contemporaneo location; in tale contesto i cittadini, nella loro diversità, fanno fatica a trovare un ruolo che non sia di comparsa. Uno sprawl urbano senza più confine, che respinge e nega diritti alle persone che prima trovavano un loro luogo (e spesso una loro abitazione) proprio su quel margine che definiva la città. Oggi, i nomadi, gli immigrati, i poveri, i senzacasa, non hanno un “fuori le mura” dove fermarsi: la città sconfinata non prevede soste, non ama i margini e i marginali non li prevede. Al posto dei confini urbani, una sconfinata suburbanizzazione, una teoria disordinata di insediamenti che si giustappongono l’uno all’altro, avendo come unica bussola il profitto. Una realtà che provoca gravi mutazioni nelle antropologie dei cittadini del terzo millennio. Scrive J. G. Ballard in SuperCannes che “La suburbanizzazione dell’anima ha devastato il nostro pianeta come la peste”.
A quel confine fisico, le mura, si sono andati sostituendo confini invisibili, che delimitano e separano le classi, che attribuiscono lo status di cittadino incluso o di escluso. Su quei confini (fisici prima, socioeconomici ora), è nato il lavoro sociale: a Roma, cinquant’anni fa, l’Acquedotto Felice era stato trasformato in una teoria di baracche, di casette autocostruite, dove avevano trovato abitazione proprio quegli edili che stavano realizzando i nuovi quartieri dei palazzinari; oggi l’Acquedotto Felice fa da scenario a un quartiere noto per la movida e per il Food & Beverage. L’unica cosa che non è cambiata, oltre l’Acquedotto Felice stesso, è la presenza del lavoro sociale: i “baraccati” non ci sono più, non abitano più lì, soltanto il lavoro sociale riesce a individuare le nuove forme di dominio e di sfruttamento, a leggere quei segnali deboli che prefigurano questioni e fenomeni inediti.
Nel preparare la relazione per questo convegno, ho osservato Firenze in una mappa satellitare e, di colpo, mi è comparsa davanti l’indifferenza urbana: una teoria di costruzioni saldano Santa Maria del Fiore a Sesto Fiorentino e Osmannoro, questi ultimi a Campi Bisenzio e Calenzano, che allora volta sono a due passi da Prato, che con Agliana e Fornacelle non distano molto da Pistoia. Per non parlare della direttrice Isolotto-Scandicci, (l’Isolotto, quello di Don Mazzi), Scandicci – Lastra a Signa – Signa, eccetera.
Questa nuova forma dello spazio, questo “sistema lineare a densità variabile di aree urbane”, lascia spazi (fisici e psicologici) definiti Terrains Vagues, spazi marginali e non visti, per ora vuoti, per qualche miracolo lasciati della rendita al loro destino, ma considerati molto spesso come “indecorosi”, come indecorosi sono coloro che li occupano. I confini sono divenuti provvisori, discutibili, spesso a cavallo di ciò che è considerato urbano e l’extraurbano: sia dentro che fuori essi ritagliano ciò che è definito terrain vague, spazio sfuggito, dimenticato, irregolare, inutilizzato, occupabile. I terrains vagues, ex fabbriche o terreni incolti, spazi rimasti inedificati tra i palazzi o edifici senza più utilizzazione da tempo, insomma ciò che è ritenuto per ora vuoto dalla rendita e indecoroso dagli amministratori rappresentano oggi ciò che gli spazi “fuori porta” rappresentavano nel passato. I terrain vague sono gli ultimi spazi conquistabili da donne e uomini in cerca di abitazione, di socialità, di cittadinanza; donne e uomini respinti e confinati ai margini della loro stessa città, una città dove gli spazi comuni ad uso pubblico vengono sostituiti da spazi privati aperti al pubblico.
Luoghi dove, nella retorica della politica e delle amministrazioni, “l’indecorosità va sanata”. In verità soltanto in questi luoghi si rintracciano spazi di cittadinanza per persone che altrimenti non ne avrebbero, privati del minimo dei diritti costituzionali garantiti, tra cui il primo, il diritto all’abitazione. I terrain vague sono allora gli ultimi spazi conquistabili per chi è senza alcuna protezione, ed è per questo che noi, che facciamo lavoro sociale, li difendiamo con le unghie e con i denti, perché in molte realtà strappate alla rendita desideri individuali e collettivi costruiscono proposte di speranza, siano essi centri sociali, centri di accoglienza per migranti, orti urbani. E’ là che uomini respinti e confinati ai margini come indesiderabili ritrovano spazi di vita e di cittadinanza.
Nella mia città, una delle piazze più belle e popolari, Campo de Fiori, è stata trasfomata in location del Food & Beverage: non c’è un solo metro del perimetro di Campo de Fiori che non sia dedicato al commercio, mentre come spazio abitabile anche da chi non intende consumare è rimasto solo il piedistallo della statua di Giordano Bruno.
La città è percorsa da una gamma notevole di bisogni, più o meno legittimi, più o meno diffusi. Compito degli amministratori è individuare le priorità e lavorare per i loro soddisfacimenti. Ma la qualità della vita in una città non si misura solo in termini di efficienza. Un altro lemma ha caratterizzato e deve continuare a caratterizzare “la cosa umana per eccellenza”, per dirlo con Levi Strauss: il desiderio. Italo Calvino, nel presentare il suo volume “Le città invisibili” in una conferenza rivolta agli studenti della Columbia University nel 1983, affermava: “Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono solo scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.” In poche righe, il desiderio compare due volte, insieme a memoria e ricordi. Si è pienamente cittadini se si ha diritto al desiderio e, come vedremo più avanti, se si ha la percezione che la città che si abita ti prevede come soggetto desiderato, quindi non marginale, trascurabile, insignificante.
Come scrive Gianfranco Amendola “È urgente procedere all’affiancamento del concetto di desiderio a quello di bisogno, con uguale dignità e peso nell’orientamento delle riflessioni delle prassi.” La differenza fra bisogno e desiderio è nel fatto che il bisogno è concettualmente centrato sulla risposta, mentre il desiderio sulla domanda: ed è in questa dinamica che si può rintracciare il destino di una città e lo stato di salute dei suoi abitanti:
“….è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”
Ecco noi viviamo in questo crinale: uso dei termini forse novecenteschi, ma la rendita e il capitale sembrano avere come desiderio cancellare tutti i desideri non commerciabili; la diversità che da sempre esprimeva ogni città, viene annientata da un’unica volontà, dal dominio sempre più accettato di pochi sui molti.
Dunque qual è il ruolo del lavoro sociale nella città, “la cosa umana per eccellenza”? Il lavoro sociale è prima di tutto un lavoro di monitoraggio delle esigibilità di quei diritti costituzionali che sono alla base della piena cittadinanza, offrendo le premesse affinché vengano rimosse le cause che ne ostacolano la realizzazione. Noi guardiamo la città, vedendo laddove altri si distraggono, individuando i diritti che vengono meno, che vengono negati.
No, il lavoro sociale non deve occuparsi di emergenze, che spesso sono tali solo nella mente di chi confonde la complessità urbana con la complicazione: noi rifiutiamo la semplificazione, la riduzione del nostro lavoro in quelle attività semplici di cui parlava Stefano Bertoletti nell’ultima slide, la riduzione del nostro lavoro in tante azioni misurabili secondo metodi tayloristici. Noi lavoriamo nella complessità, chiunque vuole ridurre questo approccio fa danni immensi alla vera missione del lavoro sociale, che deve essere piuttosto di svelare i muri che escludono, che selezionano, che legittimano alcuni desideri e ne escludono altri.
Insomma, troppo spesso ci descrivono come gente che lavora con i bisognosi; noi rivendichiamo il nostro lavoro di monitoraggio dello stato della democrazia reale, di difesa dei diritti costituzionali, di sostenere e proteggere donne e uomini desiderosi di essere considerati desiderabili. Se si prescinde dai desideri degli individui e delle collettività che abitano l’urbano, la città avrà come destino ineluttabile e tremendo di diventare nient’altro che un diffuso sistema di stoccaggio della merce, compresa la merce umana.